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Vita quotidiana

Psicologia

Quando una donna si ammala, si ammala la famiglia

La malattia richiede una buona capacità di adattamento a un nuovo stato di vita, sia da parte della persona colpita
sia di chi gli sta attorno. Nell’apprendere la diagnosi di tumore di una persona cara è inevitabile essere
sopraffatti dal senso di angoscia e di smarrimento.

Paola Gabanelli
Paola Gabanelli
responsabile della Struttura semplice di Psiconcologia dell’IRCCS Fondazione Maugeri di Pavia

Le difficoltà più comuni

A causare la difficoltà psicologica nella malattia tumorale mammaria non sono, come si potrebbe immaginare, solo elementi a carico della patologia, quali per esempio un intervento chirurgico radicale, la ripresa di malattia o l’accumularsi di eventi clinici avversi. In realtà a determinare il costo emotivo sono soprattutto fattori legati alla soggettività della persona. Primo fra tutti, la mancanza di un “equipaggiamento” di risorse psicologiche, che rende difficile alla donna adattarsi alle problematiche impreviste e improvvise che possono scaturire durante il percorso clinico. Altri fattori che vanno a gravare sulla condizione psicologica della donna è la messa in atto da parte dei familiari di atteggiamenti di evitamento o di banalizzazione rispetto alla sua sofferenza emotiva e in certe attribuzioni di significato date al tumore come, per esempio, quando la malattia viene vissuta come una punizione per una colpa reale o immaginaria. Al di là di questa necessaria premessa, parlare delle possibili difficoltà che le donne si trovano ad affrontare a causa del tumore, significa aprire un cahiers de doléances che coinvolge tutte le sfere esistenziali, a partie da quella affettiva, lavorativa, sociale, ricreativa, fino a toccare la dimensione identitaria e quella dell’immagine corporea.

A sovrastare e a intossicare come una nube queste aree, c’è quasi sempre un’angoscia dominante: la paura della morte. Tuttavia, essa non è altro che una grande matrioska contenente tutte quelle che incontriamo nell’arco dell’esistenza, dal timore del buio, della solitudine, del dolore, dell’abbandono, della perdita dell’autonomia e del controllo, fino ad arrivare all’angoscia per la propria dissoluzione.Anche se potrebbe sembrare un carico emotivo minore, una difficoltà impercettibile – ma dal dolore pungente – spesso proviene dal dover accettare che, a causa della malattia, la propria vita prenda una piega diversa da come ce la si era prospettata: rinunciare all’idea che la propria esistenza possa essere vissuta senza dolore può essere più destabilizzante di quanto si immagini, soprattutto per coloro il cui incontro con la patologia è il primo “vero” evento avverso della vita. Quando invece l’impatto con il tumore arriva in concomitanza di altre esperienze logoranti, come lutti, separazioni, licenziamenti o malattie di familiari, la sensazione di non farcela, di sentirsi devastata o di essere vittima di un ingiusto destino può far sentire la donna schiacciata da un peso intollerabile. Uno dei momenti critici, che sottende spesso la richiesta da parte delle pazienti di un intervento psicologico, è la comunicazione di malattia a familiari ritenuti emotivamente fragili come anziani o bambini. L’intenzione della stragrande maggioranza delle donne è quella di volerli proteggere, con l’illusione che il “patto del silenzio” concordato in famiglia preservi da inutili preoccupazioni e sofferenze. La mancanza di dialogo risuona invece come un divieto all’esplorazione e alla condivisione emotiva, che rappresentano per i bambini l’esperienza di crescita più importante sotto il profilo psicologico. Anche per gli adulti il solo modo di contenere e di alleviare paure e fantasmi consiste nell’avere qualcuno che sappia ascoltare e accogliere questi vissuti difficili. Il peggior viatico al percorso di malattia è infatti la condizione di solitudine, costruita ogni qual volta, per esempio, la paziente viene bloccata mentre si azzarda a condividere i suoi momenti più bui. Oppure, peggio ancora, quando vede sminuiti o banalizzati i suoi pensieri angoscianti.

Una sfera poco considerata, nella sequela delle difficoltà che le donne possono incontrare durante o dopo il percorso di malattia, riguarda il rientro al lavoro. Giungendo magari dopo lunghi periodi di sospensione, la donna può sentirsi impreparata e provare sensazioni di impotenza, inadeguatezza e con il timore di non essere più “quella di prima” (vale a dire con le medesime risorse psicologiche e caratteriali) a causa di un senso di spaesamento, di estraneità con se stessa molto forte. Infine, le pazienti possono trovarsi in difficoltà e aver bisogno di essere aiutate a ritrovarsi di fronte al venir meno di progetti esistenziali come la maternità o perché catapultate in dinamiche lavorative rese inattuabili dalle problematiche cliniche. O ancora, perché frastornate da bisogni psicologi che l’esperienza della malattia ha fatto emergere.

 

Il proprio corpo
 

Il proprio corpo

Il tumore al seno può provocare grandi cambiamenti, sia estetici che psicologici. Il proprio corpo, solitamente percepito come un rifugio, può gradualmente trasformarsi in qualcosa di estraneo e minaccioso. Sono molti i fattori che incidono nella percezione della propria immagine corporea: lo stadio della malattia, l’aumento di peso dovuto alla terapia ormonale, il gonfiore di quella cortisonica. Ma anche la fatigue e la conseguente perdita di energia a causa dei continui trattamenti incidono sul modo di vedersi. In alcuni casi, c’è il dolore fisico, che spesso nella paziente con metastasi alle ossa è accompagnato da limitazioni nei movimenti, che aumentano la sensazione di avere qualcosa di guasto. Gli antidolorifici, inoltre, possono indurre una sorta di ovattamento cognitivo che può portare a una sensazione di allontanamento dal proprio corpo. Non ci sono solo gli effetti delle cure da considerare, ma anche la delusione per la ricomparsa della malattia, l’impotenza per il venir meno della speranza e la sensazione di perdita di controllo. Fare pace con il proprio corpo che cambia, in alcune situazioni cliniche, può essere un obiettivo troppo ambizioso: è più realistico puntare sul sentirsi il più possibile a proprio agio. Con la ripresa di malattia, del resto, sparisce l’abituale sensazione di naturalezza e di confidenza, ma bisogna comunque trovare il modo di far stare la mente più comoda possibile dentro quella casa che è il corpo, seppur così cambiato.

 
Il partner
 

Il partner

La malattia mette alla prova tanto la persona quanto i suoi rapporti affettivi, primo fra tutti quello con il partner. Non solo per le difficoltà pratiche ma anche per le barriere psicologiche che possono essere erette, sia da una parte sia dall’altra, come autodifesa. La femminilità, quale intreccio di aspetti sensoriali, comportamentali, emotivi e culturali, non solo è parte vitale della dimensione psicologica della donna, ma è uno dei potenziali elementi evolutivi della sua identità.

Un partner che permetta di parlare e non censuri alla prima emozione o pensiero difficile, e che riesca a mantenere la condivisione emotiva, la complicità della vita e l’intimità quotidiana ha un ruolo determinante nel dare continuità e stabilità psicologica ed emotiva alla donna malata. Il sentirsi amati e desiderati, percepire che per l’altro si è ancora speciali è un antidoto potente a quelle sensazioni di svilimento, d’impotenza, di vergogna profonda con sé stesse che la malattia può causare. Le dinamiche affettive possono essere molto diverse da coppia a coppia e pertanto è difficile fornire delle “istruzioni per l’uso” di validità universale. Di certo, le imposizioni e le pretese di comprensione possono incrinare la relazione: parallelamente alla malattia del proprio caro, il partner potrebbe sprofondare in una condizione di fragilità, quando non di panico. Stabilire all’interno della coppia una sorta di “manuale di istruzioni” su come essere aiutate e sostenute può dare a entrambi la forza per affrontare al meglio la situazione.

 

I figli

 

I figli

Sebbene non esista un approccio standard per spiegare la malattia ai propri figli, quello che è certo che non devono essere tenuti all’oscuro, dato che assistono inevitabilmente ai cambiamenti legati al progredire della malattia. Già a tre-quattro anni i bambini sono in grado di comprendere il contenuto e il carico emotivo dei dialoghi degli adulti nonché i cambiamenti del clima familiare: oltre che inutile, il tentativo di proteggerli è rischioso perché aumenta in loro il senso di solitudine, impotenza oltre che di sfiducia in se stessi e nelle persone che li circondano. Eludere le domande o peggio, negare la malattia, lascia il bambino solo con le sue angosce, fantasie, sensi di colpa. I bambini hanno bisogno degli adulti per affrontare le emozioni difficili che provano. È la condivisione cioè la capacità di ascoltarli, sostenerli, rassicurarli la funzione che può evitare che l’esperienza dolorosa si trasformi in qualche cosa di invivibile, soverchiante e quindi traumatico. Lo psico-oncologo può aiutare a trovare il modo e le parole migliori per affrontare la questione: un genitore deve poter parlare con il proprio figlio e affrontare la sofferenza e lo smarrimento insieme a lui. Quando un bambino riceve notizie angoscianti ha bisogno di tempo per metabolizzarle. Accettare i suoi tempi, le sue modalità, così diverse da quelle dei grandi, può disorientare l’adulto, che dovrà però farsi trovare pronto ad accogliere quelle domande ed emozioni che, nel tempo emergeranno.