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Tumore al seno triplo negativo: nuove chance da una ricerca  

Uno studio italiano ha coinvolto oltre 35 centri oncologici di tutta Italia seguendo per 15 anni quasi 900 donne in post-menopausa operate per un tumore al seno (https://aacrjournals.org/clincancerres/article/doi/10.1158/1078-0432.CCR-23-1568/730072/SNP-of-Aromatase-Predict-Long-term-Survival-and?searchresult=1). 

L’obiettivo era analizzare come le varianti genetiche dell’enzima aromatasi, implicato nella produzione degli estrogeni e bersaglio dell’antitumorale letrozolo, influiscano sulla probabilità di recidive del tumore e di effetti collaterali gravi.

Il commento di Lucia Del Mastro, oncologa e direttrice della Clinica di Oncologia medica dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino – Università di Genova e coordinatrice  dello studio.

Gli inibitori dell’aromatasi come letrozolo rappresentano la terapia adiuvante anti-ormonale standard. Impediscono infatti agli androgeni di trasformarsi in estrogeni, il ‘combustibile’ per il tumore al seno positivo ai recettori per gli estrogeni. Il blocco degli estrogeni, tuttavia, si associa a una maggiore probabilità di effetti collaterali come osteoporosi e malattie cardiovascolari. 

Le tre varianti geniche individuate sono decisive sugli esiti della terapia: si associano a un maggior rischio cumulativo di recidiva e metastasi del tumore a distanza di anni e con una maggiore mortalità, ma anche a un’incidenza cumulativa più bassa di effetti collaterali come fratture o eventi cardiovascolari a dieci anni. Questi risultati fanno ipotizzare che le pazienti con queste varianti genetiche producano fisiologicamente una maggiore quantità di estrogeni che da una parte riducono l’efficacia della terapia ormonale, portando a un rischio più alto di recidiva, dall’altra diminuiscono anche gli effetti collaterali gravi di tale terapia, come le fratture da osteoporosi.

Oggi le pazienti operate per un carcinoma della mammella, positivo per i recettori ormonali, ricevono il trattamento ormonale adiuvante per un periodo che arriva fino a 7-8 anni. Valutare la presenza o meno di queste tre varianti genetiche potrebbe aprire la strada alla personalizzazione della durata di tale trattamento sulla base del rischio di recidive e di effetti collaterali di ciascuna paziente, per minimizzare i pericoli e ottimizzare i benefici, con una ricaduta positiva sugli esiti di sopravvivenza.

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