Volontari, i cambiamenti sono necessari
Meno volontari, ma più reti e un maggiore utilizzo di tecnologie digitali. È il primo bilancio del Censimento permanente delle Istituzioni non profit, realizzato da Istat fra marzo e novembre 2021. Un anno, questo, delicato, che ha visto tutto il mondo, Italia compresa, fare i conti con la pandemia. Ma quale analisi si può fare di questi dati? E quali conclusioni se ne possono trarre? Ne abbiamo parlato con Laura Gangeri, ricercatrice, psicologia clinica Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, con un’esperienza trentennale nell’ambito del mondo del volontariato e della formazione.
Che cosa ha determinato un calo nel numero dei volontari?
Intanto, va fatta una distinzione tra volontario e associazione di volontariato, perché sono due mondi diversi. In generale la letteratura scientifica post-Covid su questo argomento riporta un aspetto molto interessante, che un po’ si avvicina ai dati dell’Istat. Quello che è emerso infatti e non solo nel nostro Paese, è stato un aumento del volontariato come fenomeno spontaneo, cioè non organizzato. In sostanza, è incrementato durante il Covid il numero delle persone che si è messo a disposizione del vicino, piuttosto che nell’ambito del quartiere, per aiutare gli anziani, Tutto ciò però non nell’ambito delle associazioni, che in una percentuale elevata di casi si sono ritrovate in sofferenza.
Che cos’ha determinato questa situazione?
Tutte le associazioni si sono fermate nel periodo del Covid, ma dopo un periodo di immobilità e di smarrimento, alcune sono rimaste ferme, mentre altre si sono riattivate e modificate in tempi brevi rispetto ai bisogni che erano cambiati e che erano legati all’emergenza.
Faccio un esempio: AVO LILT a casa lontani da casa, associazioni nazionali che operano in ambito ospedaliero, nel momento in cui gli ospedali hanno chiuso, hanno rivisto rapidamente la missione, hanno modificato alcune attività sulla base dei nuovi bisogni dei cittadini. Così, per citare solo alcune esperienze, i volontari sono usciti dall’ospedale, seguendo il malato a domicilio. Sono stati resilienti, come si dice oggi, cioè hanno reagito a quello che stava accadendo, modificando in modo strutturale e anche un po’ profondo la loro organizzazione, dotandosi di tecnologie, per far fronte in poco tempo ai nuovi bisogni. Altre organizzazioni invece non sono state in grado di attuare questo cambiamento “in corsa”, si sono fermate diventando di fatto inefficienti, inefficaci e hanno così perso i volontari.
Quali potrebbero essere i cambiamenti necessari da attuare in questo momento?
Il cambiamento dovrebbe essere radicale e non è semplice. Nei paesi del Nord Europa, in modo particolare, ma anche Oltreoceano, il volontariato non è connesso alla benevolenza. È un concetto legato al senso civico, all’appartenenza alla comunità, in una logica molto interessante che si chiama dono moderno. Ha a che fare con la circolarità: oggi la persona è impegnata nel dare e domani nel ricevere. Da noi non è così e invece dovremmo sforzarci per sviluppare di più un concetto di cittadinanza di comunità in senso ampio. Richiede un lavoro importante e un grande investimento dal punto di vista culturale, ma questo permetterebbe un salto di qualità non indifferente. Abbiamo visto che quando le associazioni sono state in grado di uscire dal loro piccolo grande mondo e hanno messo insieme le risorse, le esperienze e hanno creato delle reti, sono state molto più efficaci ed efficienti. Perché hanno iniziato a ragionare in termini di comunità e non di singole realtà.