Salute mentale e tumore: perché parlarne
La salute mentale è forse uno gli aspetti relativi al benessere individuale su cui l’attenzione collettiva è maggiormente cresciuta negli ultimi decenni. Complici le attività di sensibilizzazione sul tema e il parziale venir meno dello stigma che a lungo ha gravato su questi pazienti, oggi si riconosce l’importanza del prendersi cura del proprio equilibrio emotivo, oltre che di quello fisico.
Ciò vale tanto per chi ha avuto a che fare con problemi di salute mentale svincolati dalle proprie condizioni fisiche quanto per chi, come i pazienti oncologici, ha dovuto gestirli come conseguenza di una patologia che mette a rischio la nostra incolumità e progettualità futura, portando con sé ansia, angoscia e paura costante.
In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, istituita trent’anni fa per iniziativa della Federazione Mondiale per la Salute Mentale, vogliamo fare luce su un lato della vita del paziente oncologico che merita di essere indagato.
I numeri
Cominciamo dai numeri. Quanti pazienti oncologici soffrono di problemi di salute mentale? Le statistiche, ahimè, ci restituiscono dati frammentari e parziali. Il motivo va presumibilmente rintracciato anche nella difficoltà di tante persone ad ammettere la propria sofferenza e a chiedere aiuto; difficoltà che si traduce nell’impossibilità di monitorare con efficacia il benessere psicologico dei soggetti in questione.
Uno studio spagnolo pubblicato all’inizio del 2021, ad esempio, ha evidenziato come il 30% dei malati di cancro abbia sofferto di disagi psicologici significativi, ma solo un terzo di essi abbia poi consultato uno specialista. Due studi successivi, comparsi entrambi su Nature Medicine nel 2022, hanno invece valutato l’incidenza dei disturbi psichiatrici e del rischio di suicidio dopo la diagnosi di tumore. Le ricerche hanno confermato come la mortalità per suicidio sia sensibilmente più alta nei pazienti oncologici se paragonata a quella della popolazione generale e come i problemi psicologici insorgano più frequentemente dopo una diagnosi di cancro. Ma non solo: ai disturbi di salute mentale, secondo lo studio, si accompagnano un aumentato rischio di autolesionismo e, ancora una volta, la difficoltà a chiedere aiuto; eventualità, questa, presa in considerazione solo dall’8% dei pazienti.
Al di là dei numeri, c’è un punto su cui tutte queste ricerche convergono: la sofferenza psicologica impatta in modo importante sul decorso della malattia. Le evidenze confermano infatti che la salute mentale è in grado di influenzare quella fisica, gravando sull’iter terapeutico e sulla prognosi del tumore.
Anche per questo motivo, dunque, avere un supporto psicologico durante l’iter terapeutico diventa essenziale, in quanto potrebbe essere utile per aumentare efficacia e aderenza al trattamento: rendere il paziente parte attiva e coinvolta nei suoi processi di cura, favorisce quello che viene definita la compliance terapeutica, ovvero il grado con cui il paziente segue le prescrizione mediche, siano esse farmacologiche o non farmacologiche (dietetiche, di regime di vita, di esami periodici di monitoraggio ecc).
Fattori di rischio della sofferenza psicologica
I fattori di rischio individuati dalle indagini scientifiche sottolineano come alcuni parametri più di altri possano essere correlati con il costrutto di benessere psicologico del paziente oncologico. Tra questi, ad esempio, il tipo di tumore individuato, il tempo trascorso dalla diagnosi, la tipologia di percorso terapeutico adottato, ma anche il sesso del paziente: le donne, statisticamente, sono più esposte ai problemi di salute mentale rispetto agli uomini.
Depressione, ansia, distress: i disturbi più comuni
La depressione è certamente uno dei disturbi mentali più comuni, non solo tra i pazienti oncologici. Restando nell’ambito di chi affronta queste difficoltà dopo una diagnosi di tumore, accanto alla depressione troviamo i disturbi d’ansia e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
La depressione si presenta frequentemente con disturbi del sonno, calo d’interesse verso le attività quotidiane, pensieri suicidi, spossatezza, perdita d’attenzione e alterazioni nel comportamento alimentare (diminuzione dell’appetito o, viceversa, eccessiva fame).
Si parla di Disturbo d’ansia generalizzato, invece, quando le sensazioni di ansia, paura o panico di cronicizzano fino a comparire senza che ci siano eventi scatenanti precisi. Questa condizione può riflettersi sul corpo con segnali psicosomatici (palpitazioni, tremori, nausea, tensione muscolare etc) e può presentarsi in concomitanza con altri disturbi mentali, come la depressione.
Il PTSD, invece, è legato ad un momento traumatico particolare e definito, la cui esperienza può condurre a incubi in cui l’evento viene ripercorso, ricordi ricorrenti o flashback dell’episodio, irritabilità, insonnia.
In altri casi si parla più genericamente di distress, espressione da non confondere con la più comune “stress” e che fa riferimento alle conseguenze negative derivanti dalla difficoltà di adattamento agli stimoli negativi, ossia per l’appunto allo stress, che si protraggono per tempi prolungati.
Quando lo stress diventa distress significa che nell’esperienza soggettiva vi è un disequilibrio fra le richieste dell’ambiente o di un particolare evento stressante e le risorse che si ritiene di avere a disposizione per rispondervi. Questo può tradursi in fatica emotiva e anche fisica, in quanto uno dei danni di distress prolungato è quello che riguarda il sistema immunitario che viene compromesso, portando a danni fisici che vanno da ipertensione, infarto o in generale problemi al cuore, a danni al sistema respiratorio che può essere alterato come anche il sistema neuro-muscolo-scheletrico.
Come affrontare il problema?
Le possibili strategie da mettere in atto sono molteplici e richiedono l’intervento di vari attori. In primis, la speranza è che le attività di sensibilizzazione portino a maggiore consapevolezza tra i professionisti che ogni giorno hanno a che fare con i pazienti oncologici. Un report realizzato da AIOM nel 2019 evidenziava infatti come in moltissimi reparti deputati al trattamento dei tumori gli strumenti messi a disposizione dei pazienti fossero scarsi e così anche la preparazione degli operatori sanitari, raramente formati per affrontare le difficoltà emotive dei loro assistiti.
In virtù di queste carenze si stanno moltiplicando gli interventi e le discussioni relative alle qualità empatiche che l’oncologo deve necessariamente acquisire, soprattutto in merito alle modalità comunicative da adottare con il paziente. Sul miglior modo di interfacciarsi con il proprio assistito abbiamo stilato una serie di consigli disponibili qui.
Per quanto riguarda l’assistenza psicologica, dal 2015 è stata formalmente istituita la figura dello psiconcologo, la cui integrazione nel team multidisciplinare è essenziale. Nel caso in cui il centro di cura non offra questo servizio, esiste la possibilità di verificare la prossimità con uno sportello d’assistenza sul sito della SIPO (Società Italiana Psico Oncologia) o, perché no, rivolgersi a forum e gruppi d’ascolto online.
Fondamentale è il ruolo del caregiver e della rete assistenziale del paziente. In virtù della difficoltà di alcuni malati a riconoscere il proprio disagio emotivo e a farlo presente con il professionista, sta alle persone vicine intercettare i segnali di un problema. È sempre utile, ad esempio, tener conto non solo dell’umore generale del paziente, ma anche di tutte le alterazioni nelle abitudini quotidiane che non dipendano dalla malattia in sé, come i cambi nel ritmo sonno-veglia, il comportamento alimentare e la vita sociale.
Non è raro che il paziente in sofferenza psicologica si chiuda in sé stesso: prendersene cura significa anche cogliere questa tendenza in tempo e attivarsi perché il malato riceva l’assistenza psicologica necessaria.