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Diventare madre nonostante il tumore

Ne sono consapevoli tanto i pazienti quanto i medici: nel momento della diagnosi di un tumore, la priorità consiste nell’individuare prontamente la migliore strategia terapeutica, quella che possa garantire maggiori probabilità di successo. Tuttavia, nel caso di una giovane che si ammali di tumore al seno, è davvero importante adottare una visione a lungo termine.

[su_pullquote]FEDRO PECCATORI è oncologo e ginecologo, direttore dell’Unità di fertilità e procreazione in oncologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano[/su_pullquote]

Negli ultimi anni, il numero di giovani che si ammala di questa neoplasia è andato crescendo così come, per fortuna, la probabilità di sopravvivere alla malattia. La menopausa indotta dalle terapie antitumorali può infrangere ciò che rappresenta, più che un desiderio, un vero e proprio progetto di vita: la maternità. Numerose indagini hanno infatti dimostrato che il tema della fertilità figura stabilmente tra le tre priorità principali segnalate dalle pazienti oncologiche. L’oncologo deve tenerne conto e agire in modo da non precludere alla paziente questa possibilità: la ragazza che oggi inizia le terapie, tra 5 o 10 anni potrebbe voler cercare una gravidanza.

Purtroppo, il tema della preservazione della fertilità delle donne giovani gode tuttora di scarsa adesione da parte dei medici. Un vero peccato considerato che le linee guida sull’oncofertilità a cui rifarsi – sia nazionali sia europee – esistono e sono esaustive. A voler essere onesti, i dati relativi al counseling riproduttivo, rivolto alle pazienti oncologiche, negli ultimi anni sono migliorati. Ma l’accesso alle tecniche di fertilità rimane ancora marginale: vi fa ricorso appena 1 donna su 4 nonostante 1 donna su 2 dichiari di essere interessata alla maternità. In alcune realtà, la lacuna è stata colmata inserendo il counseling riproduttivo all’interno dei percorsi diagnostico terapeutici assistenziali (PDTA). Questo consulto non è un’esclusiva del medico: può essere tenuto anche da personale sanitario – purché appositamente formato – come ostetriche e infermiere, e può essere condotto anche da remoto. A frenare la diffusione delle buone pratiche ci sono inoltre ostacoli organizzativi. Dato che non tutte le strutture sono attrezzate, la creazione di una rete di centri di raccolta e congelamento degli ovociti e del tessuto ovarico può semplificare l’accesso delle donne alle tecniche di preservazione della fertilità. A questo proposito, penso possa tornare utile passare in rassegna le due opzioni considerate, al giorno d’oggi, migliori.

La crioconservazione degli ovociti è l’opzione di prima scelta per pazienti oncologiche che desiderano in futuro avere una gravidanza. Il percorso è lo stesso della procreazione medicalmente assistita e si svolge in centri specializzati in oncofertilità. Il procedimento inizia dal consulto con l’oncologo che stabilirà, in base all’età della paziente, del tipo di terapia e della durata della stessa, se ci sono le condizioni per effettuarla. Esso è riservato alle pazienti al di sotto dei 43 anni o comunque con buona riserva ovarica perché, nonostante i progressi scientifici, alcuni aspetti biologici rimangono purtroppo cogenti: più la donna è giovane al momento della crioconservazione, maggiori saranno le probabilità di successo. Nella prima fase, vengono somministrati alla donna dei farmaci per aumentare la produzione di ovociti. Quando se ne riscontra un certo numero e di giuste dimensioni, i follicoli vengono aspirati per via transvaginale tramite un ago sottile sotto guida ecografica e dunque congelati rapidamente, a temperature molto basse, per conservarli durante le terapie antitumorali. Nel momento in cui si ha la certezza che la malattia sia superata, sarà possibile intraprendere la ricerca di gravidanza. Gli ovociti vengono scongelati, fecondati con il seme del partner e gli embrioni prodotti vengono trasferiti in utero, uno alla volta.

Nel caso di tumori che richiedono un trattamento neoadiuvante oppure tumori molto aggressivi che richiedono un trattamento tempestivo, la stimolazione ormonale rimane controversa. Per le donne più giovani, al di sotto dei 36 anni, la crioconservazione del tessuto ovarico può rappresentare un’alternativa altrettanto efficace in termini di risultato. Il prelievo può essere effettuato in qualunque momento del ciclo mestruale e dunque non è necessario attendere l’ovulazione. Tramite un piccolo intervento chirurgico, eseguito in laparoscopia, vengono prelevati alcuni frammenti di tessuto che contengono follicoli particolarmente resistenti al congelamento. Nelle giuste condizioni, essi possono essere conservati per anni, fino al momento del reimpianto – tramite una seconda laparoscopia – nella donna che, nel frattempo, avrà concluso le terapie antitumorali. Ciascuna di queste striscioline di tessuto ovarico contiene un numero di follicoli, e quindi di ovociti, sufficiente a far riprendere l’ovulazione anche a distanza di anni.

Da ultimo, a tutte le donne interessate a mantenere la funzione ovarica dopo la chemioterapia sarebbe auspicabile somministrare analoghi del LHRH. Questi farmaci inducono una menopausa temporanea e reversibile durante il trattamento chemioterapico e la loro somministrazione è associata a una probabilità maggiore di ripresa del ciclo mestruale al termine dei trattamenti. In alcuni studi è stata descritta anche una maggior probabilità di gravidanza nelle donne trattate. Le tecniche descritte non sono mutualmente esclusive. La soluzione migliore verrà identificata in accordo al desiderio della donna, alla sua età e al trattamento oncologico proposto.