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C’è chi dice no alla ricostruzione

La ricostruzione è parte integrante della cura del tumore al seno poiché consente di limitare l’impatto estetico e psicologico causato dall’asportazione di uno o di entrambi i seni, consentendo alla donna di preservare il più possibile la propria immagine corporea. Tuttavia, c’è anche chi, dopo l’intervento di quadrantecotmia o mastectomia, decide di non volerla fare. Il fenomeno, pressoché assente in Italia, è discretamente diffuso negli Stati Uniti, dove ha originato veri e propri movimenti d’opinione.

[su_pullquote]ROY DE VITA è chirurgo plastico, primario di chirurgia plastica ricostruttiva all’Istituto Nazionale Tumori “Regina Elena” di Roma[/su_pullquote]

Lo scorso mese è stato pubblicato su Salute Seno un approfondimento intitolato “Protesi al seno, c’è chi dice no” nel quale viene esaminato il fenomeno statunitense del “going flat” ossia la scelta di “rimanere piatte”, rinunciando alla ricostruzione dopo l’asportazione parziale o totale dei seni a causa di un tumore. Per chi non lo avesse letto, riassumo brevemente le informazioni essenziali. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology nel 2014, tra il 1998 e il 2007 quasi la metà delle pazienti con mastectomia singola e il 25% di quelle sottoposte a mastectomia bilaterale, hanno deciso di rinunciare alla ricostruzione.

Da un’indagine condotta tra 931 donne, e pubblicata sugli Annals of Surgical Oncology, emerge che il 74% delle intervistate che non ha optato per la ricostruzione del seno dopo la mastectomia si ritene soddisfatto dei risultati. I motivi sono molteplici, a partire dal timore di possibili complicanze, di dover tornare sotto i ferri o il rifiuto di un corpo estraneo nel proprio corpo. Ma c’è anche chi lo fa perché si sente più comoda, come testimoniato da diverse atlete e da chi non si dichiara preoccupata da una eventuale “perdita di femminilità”. Se ciò avviene, accusano le donne d’oltreoceano, è anche perché spesso le pazienti non vengono messe nelle condizioni di dare un consenso realmente informato. La medesima indagine sottolinea che, nel 22% dei casi, la mancata ricostruzione non era stata nemmeno presa in considerazione dal chirurgo.

In Italia il fenomeno del rifiuto è assai meno diffuso. Da chirurgo plastico che dirige, da quasi vent’anni, un reparto di un Istituto nazionale dei tumori, ho un’esperienza completamente diversa. E vorrei brevemente sottolineare alcune criticità dello studio. Nessuna delle pazienti coinvolte era rimasta per anni senza ricostruzione e poi l’aveva effettuata. Allo stesso modo, nessuna di loro era stata ricostruita ma in seguito aveva deciso di rimuovere la protesi. Concedetemi una similitudine culinaria: se faccio assaggiare la pizza a un gruppo di persone e alla fine chiedo se è stata di loro gradimento, ciò non significa che avrebbero disdegnato degli spaghetti al pomodoro. Anzi, forse li avrebbero apprezzati anche più della pizza eppure, non avendoli assaggiati, non avranno la possibilità di fare paragoni. In questo studio, nessuna donna ha mangiato sia la pizza che gli spaghetti.

In secondo luogo, come sono state poste le domande dell’indagine? E quali sono state? Il vero problema rimane a mio avviso l’informazione. Nello studio, per esempio, viene citato un nutrito gruppo di donne che dichiara di temere l’atto ricostruttivo e le problematiche ad esso connesse. Un segnale evidente che non siano state ben informate dal loro chirurgo. La paziente ha il diritto di conoscere in modo completo e corretto i vantaggi, i limiti e gli svantaggi di qualsiasi atto ricostruttivo. Solo così potrà prendere una decisione che sia veramente consapevole, compresa quella di rifiutare la ricostruzione. Però prima informiamola correttamente.

A tal proposito vorrei spiegare una tecnica che ho introdotto alcuni anni fa e che ora sto portando in giro per il mondo. È evidentemente legata agli interventi più attuali di chirurgia senologica nei quali viene risparmiato sia il mantello cutaneo che il complesso areola-capezzolo (nell’atto demolitivo), che il muscolo grande pettorale (in quello ricostruttivo) e viene posizionata una protesi definitiva in poliuretano – contestualmente alla rimozione del tumore – in posizione pre-pettorale. I risultati estetici sono straordinari e i fastidi per le pazienti sono praticamente azzerati. Purtroppo, non tutte le pazienti ne possono beneficiare ma quando è possibile eseguirla questa tecnica rappresenta quella che, almeno nel nostro istituto, è divenuta la prima scelta. Sottolineo “quando possibile” perché, come sappiamo, sono numerosi i fattori che concorrono nella scelta dell’intervento ricostruttivo. Come sempre gli interventi vanno personalizzati rispetto al quadro clinico e alle caratteristiche anatomiche di ogni singola paziente.